Brano tratto da "Bermuda: il triangolo maledetto" di Charles Berlitz (1974):

Fra gli antichi documenti scritti riguardanti aeroplani, forse i più completi sono quelli del Mahabharata che, sebbene considerato scritto nella sua forma attuale nel 1500 avanti Cristo, fu evidentemente copiato e ricopiato fin dalla più remota antichità. Il poema parla delle gesta degli dei e degli antichi popoli dell’India, ma contiene anche una tale ricchezza di particolari scientifici che, quando fu tradotto per la prima volta nel diciannovesimo secolo, i traduttori non riuscirono ad afferrare il senso dei riferimenti ad aeroplani e razzi a propulsione, perché i meccanismi descritti migliaia di anni prima sarebbero riapparsi, nei tempi moderni, soltanto centocinquant’anni dopo. Molti dei versi del Mahabharata, dedicati a macchine volanti chiamate vimanas, contengono particolareggiate informazioni sui principi per costruirle, che avevano creato una grande confusione d’idee nei traduttori.
In un altro testo indiano antico, il Samarangana Sutradhara, sono discussi estesamente i vantaggi e gli svantaggi di diversi tipi di aeroplani, con le loro relative capacità di ascesa, discesa e velocità di crociera; e, oltre a una descrizione della fonte di energia, il mercurio, il testo contiene raccomandazioni riguardanti i tipi di legno e di metalli leggeri e assorbenti calore, adatti per la costruzione di aeroplani. Vi sono anche dettagli informativi su come fotografare piani del nemico, sui metodi per determinare i suoi sistemi di approccio, sui mezzi per rendere incoscienti i suoi piloti, e, infine, per distruggere i vimanas nemici.
In un altro antico classico indiano, il Ramayana, esistono curiose descrizioni di viaggi in aeroplano, migliaia d’anni fa. I particolari delle vedute sopra Ceylon e sopra parti della costa indiana sono scritti con tanta naturalezza e sono così simili a quelli che si vedono oggi, i frangenti sulle spiagge, la curva della terra, i pendii delle colline, l’aspetto delle città e delle foreste, da convincere quasi il lettore del fatto che qualche viaggiatore aereo dei tempi antichi abbia visto davvero la terra dal cielo, invece d’immaginarla. In un’epitome contemporanea del Ramayana, la Mahavira Charita, l’eroe buono Rama, al suo ritorno da Lanka, dove ha appena salvato sua moglie Sita, riceve in dono un vimana speciale, descritto così: "Senza ostacoli al movimento, in grado di mantenere la velocità desiderata, perfetto nei controlli, sempre obbediente alla volontà (di chi lo guida) fornito di salottini con finestre e di ottimi sedili...", un caso in cui un classico antico si presenta come un annunzio pubblicitario moderno per l’Air India. Nello stesso testo troviamo un dialogo particolarmente sbalorditivo, se teniamo presente che precede di parecchie migliaia d’anni la realtà dei viaggi spaziali, e anche la constatazione di come appaiono le cose nello spazio.

Rama: "Sembra che il movimento di questo eccellentissimo veicolo sia cambiato ".
Vishishara: " Ora questo veicolo sta allontanandosi dalle vicinanze del centro del mondo ".
Sita: " Come mai questo circolo di stelle appare... perfino di giorno? "
Rama: " Regina! È davvero un circolo di stelle, ma a causa dell’enorme distanza noi non possiamo scorgerlo durante il giorno, perché i nostri occhi sono offuscati dalla luce del sole. Ma ora, con l’ascesa del veicolo, questo non ha più ragion d’essere... (e così noi possiamo vedere le stelle) ".

Queste descrizioni potrebbero essere memorie di un’antichissima civiltà tecnicamente progredita, oppure soltanto fantasie paragonabili a quelle di certi attuali scrittori di fantascienza dotati di una grande immaginazione: in, ogni caso, alcuni di questi resoconti sembrano stranamente contemporanei, escluso il materiale usato come fonte di energia per l’aeroplano (che però potrebbe essere un errore d’interpretazione del testo originale): "Nell’interno bisogna mettere il motore a mercurio, e sotto di esso il suo apparecchio di riscaldamento in ferro. Per mezzo dell’energia potenziale del mercurio, che mette in moto il turbine d’aria propellente, un uomo seduto nell’interno può viaggiare a grandi distanze nel cielo... perché i contenitori di mercurio devono essere costruiti dentro la struttura interna. Quando questi vengono scaldati da un fuoco controllato, il vimana sviluppa, attraverso il mercurio, una potenza di tuono... Se questa macchina di ferro con giunti opportunamente saldati è riempita di mercurio e il fuoco è incanalato nella parte superiore, sviluppa un’energia con un ruggito da leone... e d’un tratto diventa come una perla nel cielo".

Una tavola del Codice TroanoUna tavola maya del Codice Troano: in essa vi è raffigurato un essere (dall'aspetto poco umano) che sta azionando una presunta "macchina per volare". Per lo studioso francese Robert Charroux il dispositivo contenente la X è interpretabile come "motore", mentre più in alto c'è un apparato simile agli ugelli di un razzo. L'essere è intento ad accendere o a scaldare la "macchina" con una specie di fiaccola, mentre con l'altra mano regge un dispositivo sconosciuto. Si noti la sorprendente analogia tra questa raffigurazione maya e la descrizione dei vimanas negli antichi testi sacri indiani.
 
 
 



Brano tratto da "Viaggiatori del tempo" di Peter Kolosimo:

Il tumulo funerario di Sce Huang-ti (o Ts'in Sce Huang-ti), l'« imperatore giallo », alto 48 metri all'epoca della scoperta da parte della spedizione Segalen, è a cinque piani e misura 350 metri di lato, con un volume di 1.960.000 metri cubi, il che lo rende, per imponenza, il quarto monumento del mondo, dopo la piramide messicana di Cholula e quelle egizie di Cheope e di Chefren. «Le serissime cronache dello storico Sseu-ma Ts'ien (135-85 a.C.), citato abbondantemente e molto apprezzato dai sinologi », scrive Patrick Ferryn, « ci hanno lasciato informazioni più che curiose a proposito di questo monumento». Eccone un estratto.
« Sce Huang-ti riuniva nelle sue mani tutto l'impero. I lavoratori che furono mandati alla costruzione del sepolcro erano in numero di oltre 700 mila. Si scavò il suolo fino all'acqua, vi si colò del bronzo e vi si portò il sarcofago. Palazzi, edifici per tutte le amministrazioni, utensili meravigliosi, gioielli ed oggetti rari furono trasportati e sepolti. Degli artigiani ricevettero l'ordine di fabbricare balestre e frecce automatiche: se qualcuno avesse voluto fare un buco ed introdursi nella tomba, gli avrebbero tirato subito addosso. Un vero palazzo sotterraneo si ergeva là dove ruscelli di mercurio disegnavano fiumi eterni: delle macchine li facevano colare e li trasmettevano gli uni agli altri. In alto c'erano tutti i segni del cielo, in basso tutte le disposizioni geografiche. Si fabbricarono con grasso di foca torce che si calcolava dovessero durare parecchio tempo. [...]. Venne poi posta sul tumulo della vegetazione, in modo da farlo assomigliare ad una montagna ». [...]
Tombe a parte, sono stati rinvenuti nel deserto di Gobi alcuni oggetti che testimoniano l'esistenza di un'antica civiltà. Ci limiteremo a citare, tra questi, perfette carte celesti di 20 mila anni fa e dipinti
rappresentanti in modo inequivocabile indiani dell'America meridionale, portati alla luce dall'archeologo britannico Aurel Stein con alcuni vasi di argilla contenenti mercurio.
Al mercurio abbiamo accennato varie volte nel corso di questo capitolo. Ma a che cosa potrebbe essere servito quello di Gobi? Lo scrittore Jacques Bergier non esclude che da tale metallo qualcuno sia potuto partire per produrre energia nucleare ed affaccia l'ipotesi che l'antichissima cultura di Gobi sia stata distrutta da una di quelle tremende guerre combattute con veicoli aerei ed esplosivi d'inaudita potenza di cui parlano i testi sacri indù. Non vogliamo correre con la fantasia, ma dobbiamo notare che nel deserto s'incontrano, come osservano anche gli studiosi sovietici, vaste regioni di terra vetrificata alla lettera. Il pittore Nicolas Roerich, che esplorò queste regioni dal 1920 al 1925, narra di aver visto un'aeronave metallica levarsi da una valle. E questo ben prima che si cominciasse a parlare di UFO.
« Partita da Darjeeling, in India », scrivono Jacques Bergier e Paul Chwat, « la sua spedizione attraversò l'Himalaya, l'altipiano tibetano e la catena montana di Kun-Lu, per poi inoltrarsi nel Gobi. Nella carovana un pony portava un cofano contenente una misteriosa pietra "la cui radiazione è più forte di quella del radium, ma di un'altra frequenza" (?). Si sarebbe trattato di un frammento caduto dal cielo, conservato, secondo Andrew Tomas, in un tempio di Shambhala».



Brano tratto da "Misteri Antichi" di Michael Baigent (1998):

Gli alchimisti si dedicavano alla loro arte con grande impegno. Molte delle tecniche e degli apparecchi di laboratorio ancora oggi in uso derivano certamente da loro. Le attrezzature specialistiche di cui si servivano sono circa ottanta, fra cui fornaci di vario tipo, piatti e crogioli di ceramica, fiale e beute di vetro, lime, spatule, pinze, martelli, bagni di acqua e di sabbia, filtri di cotone e di lino, imbuti, pestelli e mortai, alambicchi, e una quantità di altri strumenti e recipienti, la maggior parte dei quali vengono usati ancora oggi.
Scaldare gli oggetti era una delle pratiche più in uso e due erano i metodi utilizzati: uno, più dolce, consisteva nell'immergere l'oggetto in sterco di cavallo o bagni d'acqua; l'altro, più violento, prevedeva l'uso di una fornace la cui temperatura veniva continuamente alzata da assistenti sudati che maneggiavano grandi mantici di pelle o soffiavano attraverso tubi. La temperatura raggiunta era così alta che i solidi si riducevano in polvere o si vaporizzavano.
Gli alchimisti inventarono anche la distillazione, che determinò la nascita di un'intensa attività per la produzione di profumi; per l'acqua di rose, per esempio, molto apprezzata nel mondo islamico del Medioevo, si scaldavano dolcemente i petali fino a ottenere un distillato di oli aromatici. E, come logica conseguenza, gli alchimisti del XII secolo scoprirono che, distillando il vino, si otteneva una specie di medicina che favoriva la convivialità: l'alcol.
Di solito, lo stesso prodotto veniva scaldato, distillato e ridistillato centinaia di volte, per mesi o per anni, con il solo scopo di raggiungere un obiettivo piuttosto vago: produrre, cioè, la quintessenza di ogni cosa, la rossa pietra filosofale. Gli alchimisti credevano che la polvere ottenuta da questa pietra avesse il potere di trasformare i metalli vili in oro.
L'alchimista arabo Geber descrisse un processo in cui, perché avvenissero i cambiamenti desiderati, bisognava passare attraverso settecento fasi progressive di distillazione. I chimici moderni non hanno mai tentato di ripetere questi lunghissimi processi, e dunque non sappiamo se siano efficaci o no. Ma, come vedremo più avanti, potrebbero esserlo.
Anche se non esisteva unanimità sul processo da seguire per ottenere la pietra filosofale, la maggior parte dei testi descrive sette passaggi, cominciando dal mercurio o da una miscela di mercurio e zolfo. Ogni passaggio durava molto a lungo, da sette mesi a un anno, e per tutto il tempo la temperatura della fornace doveva essere mantenuta costante. John Dastin, un monaco alchimista del XIV secolo, scrisse che il mercurio, una volta trasformato nel rosso elisir, doveva essere scaldato a fuoco lento per cento giorni. Nel caso il liquido fosse evaporato, bisognava ricominciare da capo tutto il procedimento.
Anche il periodo astrologico aveva la sua importanza. Si dice che l'alchimista Nicholas Flamel ottenne per la prima volta la "pietra" lunedì 17 gennaio 1432, verso mezzogiorno; poi, da circa "duecento grammi di mercurio", ricavò la stessa quantità di argento. Di nuovo, servendosi della "pietra rossa" il 20 aprile dello stesso anno, alle cinque di sera, trasformò in oro un'uguale quantità di mercurio (Flamel, His Exposition of the Hyeroglyphical Figures, pag.13) . Qualunque sia l'interpretazione che vogliamo darne, quando Flamel morì nel 1517, lui e sua moglie avevano fatto costruire quattordici ospedali, tre cappelle e sette chiese a Parigi, e avevano finanziato altre opere a Boulogne.
Quando cominciò a svilupparsi, nel XVII  secolo, la scienza sperimentale ripudiò le sue radici alchemiche. Uno dei primi scienziati, Robert Boyle, più tardi noto per la "legge di Boyle", fu un fermo sostenitore dei nuovi metodi sperimentali e commentò con disprezzo che «gli scritti e le fornaci» degli alchimisti «non erano solo fonte di luce, ma anche di fumo».E, evidentemente seccato dalla difficoltà e dalla complessità delle opere alchemiche che aveva tanto faticato a capire, aggiunse sarcasticamente che se i loro autori avessero desiderato veramente mantenere segreta la loro arte, «avrebbero potuto, con meno discredito per loro stessi, e meno problemi per i loro lettori, nasconderla meglio evitando del tutto di scrivere libri, anziché scriverne di così brutti».
Eppure, negli ultimi vent'anni, è stato dimostrato che l'alchimia continuò ad affascinare Boyle a tal punto che non smise mai di fare esperimenti di trarismutazione in segreto. Per nascondere questo suo interesse, cominciò a scrivere i risultati degli esperimenti usando un codice segreto molto complicato che si basava sulle lettere dell'alfabeto latino, greco ed ebraico. I testi in codice, centinaia di pagine, vennero scoperti nel 1992. Ora la domanda è: a chi nascondeva questi testi? E perché? La loro esistenza dà comunque la misura della serietà con cui Boyle prendeva l'alchimia. Ormai possiamo dimostrare che il famoso scienziato non solo credeva nel potere di una polvere di trasformare una sostanza in un'altra, ma era anche convinto che gli adepti, saggi iniziati alle arti alchemiche, conoscessero bene il segreto per produrla e usarla. Fece grandi sforzi per entrare in contatto con loro e per avere accesso ai loro segreti, ma non sappiamo se riuscì nel tentativo; certo, fece dichiarazioni piuttosto curiose sull'argomento. In un dialogo mai pubblicato, oggi conservato alla Royal Society di Londra, Boyle afferma di credere che gli adepti possedevano la "polvere rossa" derivante dalla pietra filosofale, e che sapevano usarla non solo per fare medicine e tramutare i metalli vili in oro e argento, ma anche per mettersi in contatto con gli spiriti. Lo scienziato scoprì anche un tipo di mercurio per uso alchemico che definì "fine", ma di cui non rivelò mai l'origine e produsse, o ebbe in dono, una polvere alchemica che chiamava "terra rossa". Alla sua morte, avvenuta nel 1691, lasciò una parte di questa "terra rossa" al suo amico John Locke, filosofo e membro della Royal Society, che successivamente la diede a un altro amico, Isaac Newton, presidente della Royal Society dal 1703. Dunque la "terra rossa" venne in possesso del fior fiore dell'establishment scientifico dell'epoca.
Newton, vero e proprio monumento nella storia della scienza, condivideva con Boyle il grande interesse per l'alchimia, e i due si incontrarono segretamente con vari alchimisti, anche se poi ne deridevano il lavoro in pubblico. L'interesse di Newton per l'alchimia rimase nascosto per molti anni. Quando morì, nel 1727, molte delle sue carte furono bruciate, e molte altre vennero dichiarate «non adatte alla pubblicazione» e conservate dalla sua famiglia. Il suo grande interesse per le arti alchemiche non divenne noto finché queste carte non furono messe all'asta a Londra nel 1936, quando gli studiosi scoprirono non solo il ruolo dominante che l'alchimia aveva avuto nella sua vita, ma anche che il grande scienziato credeva fermamente che «gli antichi conoscevano tutti i segreti contemporaneamente». La dottoressa Betty Dobbs, che studiò queste carte, concluse che «si poteva affermare con certezza che Newton credeva così fermamente nei princìpi fondamentali dell'alchimia, che non arrivò mai a negarne la validità generale...». Si può dubitare che Flamel e Dastin fossero davvero riusciti a creare la pietra filosofale e a trasformare i metalli in oro. Certo, è una cosa accaduta molto tempo fa ed è probabile che i resoconti che ne vennero fatti in seguito contenessero qualche esagerazione. Ma, considerando il rigore scientifico con cui Boyle e Newton conducevano i loro esperimenti, e visto che hanno lasciato una serie di scritti sull'argomento, è lecito domandarsi che cosa occupasse tanto del loro tempo. Che conclusioni dobbiamo trarre dal fatto che si siano dedicati così a lungo al trattamento del mercurio, sperando di riuscire a produrre una sostanza rossa, pietra o elisir che fosse?
Nel loro caso, il processo alchemico non può essere stato solo simbolico, perché i due scienziati erano perfettamente consapevoli della differenza; e comunque, se fosse stato solo simbolico, Boyle non avrebbe avuto alcun bisogno di usare un codice e Newton non avrebbe tenuto segrete le sue carte. Forse gli alchimisti avevano scoperto tecniche che la scienza ortodossa non aveva ancora sviluppato, ma di cui Boyle e Newton erano venuti a conoscenza.
È davvero possibile che la distillazione ripetuta o il riscaldamento di un oggetto per un periodo di tempo prolungato produca tali cambiamenti in un elemento o in un composto, da poterlo letteralmente trasformare in un prodotto dai poteri straordinari? E la scienza moderna è mai riuscita a dimostrare l'esistenza di una cosa simile? La risposta, per quanto timidamente possa venir data, è sì.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e l’indebolimento del suo rigido potere centralizzato, le organizzazioni criminali russe hanno assunto un controllo sempre maggiore del paese, cercando anche di stabilire un contatto con organizzazioni straniere. Dal 1991 in poi ci sono stati incontri ad alto livello con i padrini della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta. I legami che la criminalità russa ha stabilito con quella italiana hanno reso più facile il. riciclaggio di denaro sporco e il traffico di droga e di materiali nucleari illegali, "facili da reperire sul mercato grazie al caos amministrativo e alla carenza di fondi determinatasi nell’industria nucleare e nelle forze armate sovietiche". Fondi che, al contrario, certo non mancavano ai regimi interessati all’acquisto di quei materiali.
Alla fine del 1993 comparve sulla scena un nuovo elemento piuttosto preoccupante. I gruppi criminali russi cominciarono a immettere sul mercato una sostanza fino a quel momento sconosciuta in Occidente e nota semplicemente come "mercurio rosso". Si diceva che fosse un prodotto segreto dell’industria nucleare sovietica. Il 23 dicembre 1993 cinque cittadini moldavi cercarono di far entrare in Romania una certa quantità di uranio puro insieme a una sostanza che chiamavano, appunto, mercurio rosso, e che era destinata al mercato nero nucleare (The Times, 24 dicembre 1993, pag.9). Gli scienziati occidentali, preoccupati della cosa, cercarono di scoprire se la sostanza esisteva veramente e di stabilire che cosa fosse. Ma nel 1994, il ministero dell’Energia degli Stati Uniti e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica dichiararono che il mercurio rosso era un‘"invenzione", un’altra frode perpetrata dalla mafia russa ai danni di probabili acquirenti di materiale nucleare illecito. Ma alcuni fisici nucleari occidentali avevano buone ragioni per pensarla altrimenti, e sospettarono che le accuse di frode fossero state motivate dal desiderio di nascondere una verità scomoda.
Nel giugno del 1994, in un articolo apparso sulla International Defense Review, il fisico nucleare Frank Barnaby riportò la conversazione che aveva avuto con un fisico russo la cui identità rimase anonima. Secondo lo scienziato, il mercurio rosso era un componente fondamentale di un nuovo tipo di testata nucleare russa; la sostanza si era dimostrata un catalizzatore molto efficace nella detonazione, tanto che era ormai possibile produrre bombe nucleari molto più piccole e molto più leggere di quelle occidentali. Il dottor Barnaby spiegò che grazie a questo mercurio rosso si potevano produrre testate nucleari di un peso compreso fra i due e i tre chili, che potevano venire facilmente collocate nel centro di una città e poi fatte esplodere. Il suo maggior timore era che questa pericolosissima sostanza potesse cadere nelle mani di qualche terrorista. Tra l’altro, era stato informato che Israele, l’Iran, l’Iraq, la Libia e il Pakistan ne erano già entrati in possesso per vie illegali e intendevano dare inizio alla produzione delle armi. È noto che alcuni di questi paesi appoggiano gruppi terroristici di vario tipo, e potrebbero fornir loro sia la sostanza grezza, sia il prodotto finito. Il metodo di produzione del mercurio rosso ha evidenti somiglianze con i processi alchemici. Se un alchimista lavorasse all’interno di un complesso militare russo, e avesse accesso alle attrezzature moderne, certamente riuscirebbe a inventare qualcosa di simile a questa sostanza. In base alle notizie fornite dallo scienziato russo, la sostanza viene prodotta in questo modo:

Il sesquiòssido di antimonio e l’ossido di mercurio vengono riscaldati insieme a una temperatura di 500 gradi centigradi e alla pressione di un’atmosfera di ossigeno. Il riscaldamento deve continuare a una temperatura costante per due giorni. Il prodotto finale è una sostanza chiamata ossido di mercurio e antimonio. Questo processo non è stato riportato sulla stampa ufficiale fino al 1968.
L’ossido così ottenuto viene sciolto in mercurio puro; ossido e mercurio devono essere presenti nella stessa quantità. La miscela viene poi sigillata in un contenitore e messa in un reattore nucleare, dove viene irradiata per circa venti giorni a una temperatura di 500 gradi.
Fatto questo, il mercurio in eccesso viene eliminato e quello che rimane è una sostanza "rosso ciliegia" della consistenza del miele liquido. Capsule contenenti questo liquido vengono poi messe nelle bombe nucleari."

È strano che il processo di produzione descritto preveda l’uso del mercurio e tempi di reazione così lunghi. Ed è anche strano che, insieme al mercurio, venga usato l’antimonio. L’alchimista del XII secolo Artefio parla di una speciale tintura contenente antimonio e mercurio sublimato che avrebbe dovuto avere effetti spettacolari (The secret book of Artephius, pag.6). Gli scienziati ammisero solo nel 1968 che si poteva realizzare un composto chiamato ossido di mercurio e antimonio; il mercurio rosso, invece, non è stato ancora accettato. La domanda che ci poniamo è quante sostanze considerate impossibili si possano invece realizzare grazie alla chimica e alla tecnologia moderna, e avendo a disposizione molto tempo. Forse, oltre alla pazienza, gli esperimenti degli antichi alchimisti possono insegnarci molto".


Esperimento del vortice di mercurio

 
1) Costruire un "condensatore beaker" usando la base del beaker come dielettrico tra le due lamine di rame
2) Riempire il "condensatore beaker" per il 5% con mercurio
3) Mescolare il mercurio con una bacchetta di legno per dare inizio al movimento del vortice
4) Caricare il "condensatore beaker" con una sorgente elettrica a corrente continua. Il mercurio dovrebbe continuare a ruotare e ad aumentare la velocità di rotazione quando la carica viene applicata.

ATTENZIONE : QUESTO ESPERIMENTO POTREBBE ESSERE MOLTO PERICOLOSO!

Nota : Questo esperimento è basato sulla Thomson Tornado Theory di Peter Thomson
 

Brano tratto dal Samarangana Sutradhara in sanscrito:

"La struttura del Vimana deve essere costruita solida e durevole, come un grande uccello volante di materiale leggero. All'interno si deve mettere il motore a mercurio con sotto il suo apparato di riscaldamento in ferro. Per mezzo della potenza latente nel mercurio che mette in movimento il turbine di comando, un uomo seduto all'interno viaggia per una grande distanza nel cielo. I movimenti dei Vimana sono tali che esso può ascendere verticalmente, discendere verticalmente, muoversi inclinato avanti e indietro. Con l'aiuto delle macchine gli esseri umani possono volare nell'aria e gli esseri celesti possono discendere sulla terra."



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