Brano tratto da "Bermuda: il triangolo maledetto" di Charles Berlitz (1974):
Fra gli antichi documenti
scritti riguardanti aeroplani, forse i più completi sono quelli
del Mahabharata che, sebbene considerato scritto nella sua forma
attuale nel 1500 avanti Cristo, fu evidentemente copiato e ricopiato fin
dalla più remota antichità. Il poema parla delle gesta degli
dei e degli antichi popoli dell’India, ma contiene anche una tale ricchezza
di particolari scientifici che, quando fu tradotto per la prima volta nel
diciannovesimo secolo, i traduttori non riuscirono ad afferrare il senso
dei riferimenti ad aeroplani e razzi a propulsione, perché i meccanismi
descritti migliaia di anni prima sarebbero riapparsi, nei tempi moderni,
soltanto centocinquant’anni dopo. Molti dei versi del
Mahabharata,
dedicati
a macchine volanti chiamate vimanas, contengono particolareggiate
informazioni sui principi per costruirle, che avevano creato una grande
confusione d’idee nei traduttori.
In un altro testo indiano
antico, il Samarangana Sutradhara, sono discussi estesamente i vantaggi
e gli svantaggi di diversi tipi di aeroplani, con le loro relative capacità
di ascesa, discesa e velocità di crociera; e, oltre a una descrizione
della fonte di energia, il mercurio, il
testo contiene raccomandazioni riguardanti i tipi di legno e di metalli
leggeri e assorbenti calore, adatti per la costruzione di aeroplani. Vi
sono anche dettagli informativi su come fotografare piani del nemico, sui
metodi per determinare i suoi sistemi di approccio, sui mezzi per rendere
incoscienti i suoi piloti, e, infine, per distruggere i vimanas nemici.
In un altro antico classico
indiano, il Ramayana, esistono curiose descrizioni di viaggi in
aeroplano, migliaia d’anni fa. I particolari delle vedute sopra Ceylon
e sopra parti della costa indiana sono scritti con tanta naturalezza e
sono così simili a quelli che si vedono oggi, i frangenti sulle
spiagge, la curva della terra, i pendii delle colline, l’aspetto delle
città e delle foreste, da convincere quasi il lettore del fatto
che qualche viaggiatore aereo dei tempi antichi abbia visto davvero la
terra dal cielo, invece d’immaginarla. In un’epitome contemporanea del
Ramayana,
la
Mahavira
Charita, l’eroe buono Rama, al suo ritorno da Lanka, dove ha appena
salvato sua moglie Sita, riceve in dono un vimana speciale, descritto
così: "Senza ostacoli al movimento, in grado di mantenere la
velocità desiderata, perfetto nei controlli, sempre obbediente alla
volontà (di chi lo guida) fornito di salottini con finestre e di
ottimi sedili...", un caso in cui un classico antico si presenta come
un annunzio pubblicitario moderno per l’Air India. Nello stesso
testo troviamo un dialogo particolarmente sbalorditivo, se teniamo presente
che precede di parecchie migliaia d’anni la realtà dei viaggi spaziali,
e anche la constatazione di come appaiono le cose nello spazio.
Rama: "Sembra che
il movimento di questo eccellentissimo veicolo sia cambiato ".
Vishishara: " Ora
questo veicolo sta allontanandosi dalle vicinanze del centro del mondo
".
Sita: " Come mai
questo circolo di stelle appare... perfino di giorno? "
Rama: " Regina!
È davvero un circolo di stelle, ma a causa dell’enorme distanza
noi non possiamo scorgerlo durante il giorno, perché i nostri occhi
sono offuscati dalla luce del sole. Ma ora, con l’ascesa del veicolo, questo
non ha più ragion d’essere... (e così noi possiamo vedere
le stelle) ".
Queste descrizioni potrebbero essere memorie di un’antichissima civiltà tecnicamente progredita, oppure soltanto fantasie paragonabili a quelle di certi attuali scrittori di fantascienza dotati di una grande immaginazione: in, ogni caso, alcuni di questi resoconti sembrano stranamente contemporanei, escluso il materiale usato come fonte di energia per l’aeroplano (che però potrebbe essere un errore d’interpretazione del testo originale): "Nell’interno bisogna mettere il motore a mercurio, e sotto di esso il suo apparecchio di riscaldamento in ferro. Per mezzo dell’energia potenziale del mercurio, che mette in moto il turbine d’aria propellente, un uomo seduto nell’interno può viaggiare a grandi distanze nel cielo... perché i contenitori di mercurio devono essere costruiti dentro la struttura interna. Quando questi vengono scaldati da un fuoco controllato, il vimana sviluppa, attraverso il mercurio, una potenza di tuono... Se questa macchina di ferro con giunti opportunamente saldati è riempita di mercurio e il fuoco è incanalato nella parte superiore, sviluppa un’energia con un ruggito da leone... e d’un tratto diventa come una perla nel cielo".
Una
tavola maya del Codice Troano: in essa vi è raffigurato un essere
(dall'aspetto poco umano) che sta azionando una presunta "macchina per
volare". Per lo studioso francese Robert Charroux il dispositivo contenente
la X è interpretabile come "motore", mentre più in alto c'è
un apparato simile agli ugelli di un razzo. L'essere è intento ad
accendere o a scaldare la "macchina" con una specie di fiaccola, mentre
con l'altra mano regge un dispositivo sconosciuto. Si noti la sorprendente
analogia tra questa raffigurazione maya e la descrizione dei vimanas
negli
antichi testi sacri indiani.
Il tumulo funerario di
Sce Huang-ti (o Ts'in Sce Huang-ti), l'« imperatore giallo »,
alto 48 metri all'epoca della scoperta da parte della spedizione Segalen,
è a cinque piani e misura 350 metri di lato, con un volume di 1.960.000
metri cubi, il che lo rende, per imponenza, il quarto monumento del mondo,
dopo la piramide messicana di Cholula e quelle egizie di Cheope e di Chefren.
«Le serissime cronache dello storico Sseu-ma Ts'ien (135-85 a.C.),
citato abbondantemente e molto apprezzato dai sinologi », scrive
Patrick Ferryn, « ci hanno lasciato informazioni più che curiose
a proposito di questo monumento». Eccone un estratto.
«
Sce Huang-ti riuniva nelle sue mani tutto l'impero. I lavoratori che furono
mandati alla costruzione del sepolcro erano in numero di oltre 700 mila.
Si scavò il suolo fino all'acqua, vi si colò del bronzo e
vi si portò il sarcofago. Palazzi, edifici per tutte le amministrazioni,
utensili meravigliosi, gioielli ed oggetti rari furono trasportati e sepolti.
Degli artigiani ricevettero l'ordine di fabbricare balestre e frecce automatiche:
se qualcuno avesse voluto fare un buco ed introdursi nella tomba, gli avrebbero
tirato subito addosso. Un vero palazzo sotterraneo si ergeva là
dove ruscelli di mercurio
disegnavano fiumi eterni: delle macchine li facevano colare e li trasmettevano
gli uni agli altri. In alto c'erano tutti
i segni del cielo, in basso tutte le disposizioni geografiche. Si fabbricarono
con grasso di foca torce che si calcolava dovessero durare parecchio tempo.
[...]. Venne poi posta sul tumulo della vegetazione, in modo da farlo assomigliare
ad una montagna ». [...]
Tombe
a parte, sono stati rinvenuti nel deserto di Gobi alcuni oggetti che testimoniano
l'esistenza di un'antica civiltà. Ci limiteremo a citare, tra questi,
perfette carte celesti di 20 mila anni fa e dipinti
rappresentanti
in modo inequivocabile indiani dell'America meridionale, portati alla luce
dall'archeologo britannico Aurel Stein con alcuni vasi di argilla contenenti
mercurio.
Al
mercurio
abbiamo accennato varie volte nel corso di questo capitolo. Ma a che cosa
potrebbe essere servito quello di Gobi? Lo scrittore Jacques Bergier non
esclude che da tale metallo qualcuno sia potuto partire per produrre
energia nucleare ed affaccia l'ipotesi che l'antichissima cultura di
Gobi sia stata distrutta da una di quelle tremende guerre combattute con
veicoli aerei ed esplosivi d'inaudita potenza di cui parlano i testi sacri
indù. Non vogliamo correre con la fantasia, ma dobbiamo notare che
nel deserto s'incontrano, come osservano anche gli studiosi sovietici,
vaste regioni di terra vetrificata alla lettera. Il pittore Nicolas Roerich,
che esplorò queste regioni dal 1920 al 1925, narra di aver visto
un'aeronave metallica levarsi da una valle. E questo ben prima che si cominciasse
a parlare di UFO.
«
Partita da Darjeeling, in India », scrivono Jacques Bergier e Paul
Chwat, « la sua spedizione attraversò l'Himalaya, l'altipiano
tibetano e la catena montana di Kun-Lu, per poi inoltrarsi nel Gobi. Nella
carovana un pony portava un cofano contenente una misteriosa pietra "la
cui radiazione è più forte di quella del radium, ma di un'altra
frequenza" (?). Si sarebbe trattato di un frammento caduto dal cielo, conservato,
secondo Andrew Tomas, in un tempio di Shambhala».
Gli
alchimisti si dedicavano alla loro arte con grande impegno. Molte delle
tecniche e degli apparecchi di laboratorio ancora oggi in uso derivano
certamente da loro. Le attrezzature specialistiche di cui si servivano
sono circa ottanta, fra cui fornaci di vario tipo, piatti e crogioli di
ceramica, fiale e beute di vetro, lime, spatule, pinze, martelli, bagni
di acqua e di sabbia, filtri di cotone e di lino, imbuti, pestelli e mortai,
alambicchi, e una quantità di altri strumenti e recipienti, la maggior
parte dei quali vengono usati ancora oggi.
Scaldare
gli oggetti era una delle pratiche più in uso e due erano i metodi
utilizzati: uno, più dolce, consisteva nell'immergere l'oggetto
in sterco di cavallo o bagni d'acqua; l'altro, più violento, prevedeva
l'uso di una fornace la cui temperatura veniva continuamente alzata da
assistenti sudati che maneggiavano grandi mantici di pelle o soffiavano
attraverso tubi. La temperatura raggiunta era così alta che i
solidi si riducevano in polvere o si vaporizzavano.
Gli
alchimisti inventarono anche la distillazione, che determinò la
nascita di un'intensa attività per la produzione di profumi; per
l'acqua di rose, per esempio, molto apprezzata nel mondo islamico del Medioevo,
si scaldavano dolcemente i petali fino a ottenere un distillato di oli
aromatici. E, come logica conseguenza, gli alchimisti del XII secolo scoprirono
che, distillando il vino, si otteneva una specie di medicina che favoriva
la convivialità: l'alcol.
Di
solito, lo stesso prodotto veniva scaldato, distillato e ridistillato centinaia
di volte, per mesi o per anni, con il solo scopo di raggiungere un obiettivo
piuttosto vago: produrre, cioè, la quintessenza di ogni cosa, la
rossa pietra filosofale. Gli alchimisti credevano che la polvere ottenuta
da questa pietra avesse il potere di trasformare i metalli vili in oro.
L'alchimista
arabo Geber descrisse un processo in cui, perché avvenissero i cambiamenti
desiderati, bisognava passare attraverso settecento fasi progressive
di distillazione. I chimici moderni non hanno mai tentato di ripetere
questi lunghissimi processi, e dunque non sappiamo se siano efficaci o
no. Ma, come vedremo più avanti, potrebbero esserlo.
Anche
se non esisteva unanimità sul processo da seguire per ottenere la
pietra filosofale, la maggior parte dei testi descrive sette passaggi,
cominciando dal mercurio
o da una miscela di mercurio
e zolfo. Ogni passaggio durava molto a lungo, da sette mesi a un
anno, e per tutto il tempo la temperatura della fornace doveva essere mantenuta
costante. John Dastin, un monaco alchimista del XIV secolo, scrisse che
il mercurio,
una volta trasformato nel rosso elisir, doveva essere scaldato a
fuoco lento per cento giorni. Nel caso il liquido fosse evaporato, bisognava
ricominciare da capo tutto il procedimento.
Anche
il periodo astrologico aveva la sua importanza. Si dice che l'alchimista
Nicholas Flamel ottenne per la prima volta la "pietra" lunedì 17
gennaio 1432, verso mezzogiorno; poi, da circa "duecento grammi di mercurio",
ricavò la stessa quantità di argento. Di nuovo, servendosi
della "pietra rossa" il 20 aprile dello stesso anno, alle cinque
di sera, trasformò in oro un'uguale quantità di mercurio
(Flamel, His Exposition of the Hyeroglyphical Figures, pag.13) .
Qualunque sia l'interpretazione che vogliamo darne, quando Flamel morì
nel 1517, lui e sua moglie avevano fatto costruire quattordici ospedali,
tre cappelle e sette chiese a Parigi, e avevano finanziato altre opere
a Boulogne.
Quando
cominciò a svilupparsi, nel XVII secolo, la scienza sperimentale
ripudiò le sue radici alchemiche. Uno dei primi scienziati, Robert
Boyle, più tardi noto per la "legge di Boyle", fu un fermo sostenitore
dei nuovi metodi sperimentali e commentò con disprezzo che «gli
scritti e le fornaci» degli alchimisti «non erano solo fonte
di luce, ma anche di fumo».E, evidentemente seccato dalla difficoltà
e dalla complessità delle opere alchemiche che aveva tanto faticato
a capire, aggiunse sarcasticamente che se i loro autori avessero desiderato
veramente mantenere segreta la loro arte, «avrebbero potuto, con
meno discredito per loro stessi, e meno problemi per i loro lettori, nasconderla
meglio evitando del tutto di scrivere libri, anziché scriverne di
così brutti».
Eppure,
negli ultimi vent'anni, è stato dimostrato che l'alchimia continuò
ad affascinare Boyle a tal punto che non smise mai di fare esperimenti
di trarismutazione in segreto. Per nascondere questo suo interesse, cominciò
a scrivere i risultati degli esperimenti usando un codice segreto molto
complicato che si basava sulle lettere dell'alfabeto latino, greco ed ebraico.
I testi in codice, centinaia di pagine, vennero scoperti nel 1992. Ora
la domanda è: a chi nascondeva questi testi? E perché? La
loro esistenza dà comunque la misura della serietà con cui
Boyle prendeva l'alchimia. Ormai possiamo dimostrare che il famoso scienziato
non solo credeva nel potere di una polvere di trasformare una sostanza
in un'altra, ma era anche convinto che gli adepti, saggi iniziati
alle arti alchemiche, conoscessero bene il segreto per produrla e usarla.
Fece grandi sforzi per entrare in contatto con loro e per avere accesso
ai loro segreti, ma non sappiamo se riuscì nel tentativo; certo,
fece dichiarazioni piuttosto curiose sull'argomento. In un dialogo mai
pubblicato, oggi conservato alla Royal Society di Londra, Boyle
afferma di credere che gli adepti possedevano la "polvere rossa"
derivante dalla pietra filosofale, e che sapevano usarla non solo per fare
medicine e tramutare i metalli vili in oro e argento, ma anche per mettersi
in contatto con gli spiriti. Lo scienziato scoprì anche un tipo
di mercurio
per uso alchemico che definì "fine", ma di cui non rivelò
mai l'origine e produsse, o ebbe in dono,
una polvere alchemica che chiamava "terra rossa". Alla sua morte,
avvenuta nel 1691, lasciò una parte di questa "terra rossa"
al suo amico John Locke, filosofo e membro della Royal Society,
che successivamente la diede a un altro amico, Isaac Newton, presidente
della Royal Society dal 1703. Dunque la "terra rossa"
venne in possesso del fior fiore dell'establishment scientifico dell'epoca.
Newton,
vero e proprio monumento nella storia della scienza, condivideva con Boyle
il grande interesse per l'alchimia, e i due si incontrarono segretamente
con vari alchimisti, anche se poi ne deridevano il lavoro in pubblico.
L'interesse di Newton per l'alchimia rimase nascosto per molti anni. Quando
morì, nel 1727, molte delle sue carte furono bruciate, e
molte altre vennero dichiarate «non adatte alla pubblicazione»
e conservate dalla sua famiglia. Il suo grande interesse per le arti alchemiche
non divenne noto finché queste carte non furono messe all'asta a
Londra nel 1936, quando gli studiosi scoprirono non solo il ruolo
dominante che l'alchimia aveva avuto nella sua vita, ma anche che il grande
scienziato credeva fermamente che «gli antichi conoscevano
tutti
i
segreti contemporaneamente». La dottoressa Betty Dobbs, che studiò
queste carte, concluse che «si poteva affermare con certezza che
Newton credeva così fermamente nei princìpi fondamentali
dell'alchimia, che non arrivò mai a negarne la validità generale...».
Si può dubitare che Flamel e Dastin fossero davvero riusciti a creare
la pietra filosofale e a trasformare i metalli in oro. Certo, è
una cosa accaduta molto tempo fa ed è probabile che i resoconti
che ne vennero fatti in seguito contenessero qualche esagerazione. Ma,
considerando il rigore scientifico con cui Boyle e Newton conducevano i
loro esperimenti, e visto che hanno lasciato una serie di scritti sull'argomento,
è lecito domandarsi che cosa occupasse tanto del loro tempo. Che
conclusioni dobbiamo trarre dal fatto che si siano dedicati così
a lungo al trattamento del mercurio,
sperando di riuscire a produrre una sostanza rossa, pietra o elisir che
fosse?
Nel
loro caso, il processo alchemico non può essere stato solo simbolico,
perché i due scienziati erano perfettamente consapevoli della differenza;
e comunque, se fosse stato solo simbolico, Boyle non avrebbe avuto alcun
bisogno di usare un codice e Newton non avrebbe tenuto segrete le sue carte.
Forse gli alchimisti avevano scoperto tecniche che la scienza ortodossa
non aveva ancora sviluppato, ma di cui Boyle e Newton erano venuti a conoscenza.
È
davvero possibile che la distillazione ripetuta o il riscaldamento di un
oggetto per un periodo di tempo prolungato produca tali cambiamenti in
un elemento o in un composto, da poterlo letteralmente trasformare in un
prodotto dai poteri straordinari? E la scienza moderna è mai riuscita
a dimostrare l'esistenza di una cosa simile? La risposta, per quanto timidamente
possa venir data, è sì.
Dopo
il crollo dell’Unione Sovietica e l’indebolimento del suo rigido potere
centralizzato, le organizzazioni criminali russe hanno assunto un controllo
sempre maggiore del paese, cercando anche di stabilire un contatto con
organizzazioni straniere. Dal 1991 in poi ci sono stati incontri ad alto
livello con i padrini della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta. I
legami che la criminalità russa ha stabilito con quella italiana
hanno reso più facile il. riciclaggio di denaro sporco e il traffico
di droga e di materiali nucleari illegali, "facili da reperire sul mercato
grazie al caos amministrativo e alla carenza di fondi determinatasi nell’industria
nucleare e nelle forze armate sovietiche". Fondi che, al contrario, certo
non mancavano ai regimi interessati all’acquisto di quei materiali.
Alla
fine del 1993 comparve sulla scena un nuovo elemento piuttosto preoccupante.
I gruppi criminali russi cominciarono a immettere sul mercato
una sostanza
fino a quel momento sconosciuta in Occidente e nota semplicemente come
"mercurio rosso".
Si diceva che fosse un prodotto segreto dell’industria nucleare sovietica.
Il 23 dicembre 1993 cinque cittadini moldavi cercarono di far entrare in
Romania una certa quantità di uranio puro insieme a una sostanza
che chiamavano, appunto, mercurio rosso,
e che era destinata al mercato nero nucleare (The Times, 24 dicembre
1993, pag.9). Gli scienziati occidentali, preoccupati della cosa, cercarono
di scoprire se la sostanza esisteva veramente e di stabilire che cosa fosse.
Ma nel 1994, il ministero dell’Energia degli Stati Uniti e l’Agenzia internazionale
per l’energia atomica dichiararono che il mercurio
rosso era un‘"invenzione", un’altra frode
perpetrata dalla mafia russa ai danni di probabili acquirenti di materiale
nucleare illecito. Ma alcuni fisici nucleari occidentali avevano buone
ragioni per pensarla altrimenti, e sospettarono che le accuse di frode
fossero state motivate dal desiderio di nascondere una verità scomoda.
Nel
giugno del 1994, in un articolo apparso sulla International Defense
Review, il fisico nucleare Frank Barnaby riportò la conversazione
che aveva avuto con un fisico russo la cui identità rimase anonima.
Secondo lo scienziato, il mercurio
rosso era un componente fondamentale di un
nuovo tipo di testata nucleare russa; la sostanza si era dimostrata un
catalizzatore molto efficace nella detonazione,
tanto che era ormai possibile produrre bombe nucleari molto più
piccole e molto più leggere di quelle occidentali. Il dottor Barnaby
spiegò che grazie a questo mercurio
rosso si potevano produrre testate nucleari
di un peso compreso fra i due e i tre chili, che potevano venire facilmente
collocate nel centro di una città e poi fatte esplodere. Il suo
maggior timore era che questa pericolosissima sostanza potesse cadere nelle
mani di qualche terrorista. Tra l’altro, era stato informato che Israele,
l’Iran, l’Iraq, la Libia e il Pakistan ne erano già entrati in possesso
per vie illegali e intendevano dare inizio alla produzione delle armi.
È noto che alcuni di questi paesi appoggiano gruppi terroristici
di vario tipo, e potrebbero fornir loro sia la sostanza grezza, sia il
prodotto finito. Il metodo di produzione del mercurio
rosso ha evidenti somiglianze con i processi
alchemici. Se un alchimista lavorasse all’interno di un complesso militare
russo, e avesse accesso alle attrezzature moderne, certamente riuscirebbe
a inventare qualcosa di simile a questa sostanza. In base alle notizie
fornite dallo scienziato russo, la sostanza viene prodotta in questo modo:
Il sesquiòssido di antimonio e l’ossido di mercurio
vengono riscaldati insieme a una temperatura di 500 gradi centigradi e
alla pressione di un’atmosfera di ossigeno. Il riscaldamento deve continuare
a una temperatura costante per due giorni. Il prodotto finale è
una sostanza chiamata ossido di mercurio e antimonio. Questo processo
non è stato riportato sulla stampa ufficiale fino al 1968.
L’ossido così ottenuto viene sciolto in mercurio puro; ossido
e mercurio devono essere presenti nella stessa quantità.
La miscela viene poi sigillata in un contenitore e messa in un reattore
nucleare, dove viene irradiata per circa venti giorni a una temperatura
di 500 gradi.
Fatto questo, il mercurio in eccesso viene eliminato e quello che
rimane è una sostanza "rosso ciliegia" della consistenza del miele
liquido. Capsule contenenti questo liquido vengono poi messe nelle bombe
nucleari."
È
strano che il processo di produzione descritto preveda l’uso del mercurio
e tempi di reazione così lunghi. Ed è anche strano che, insieme
al mercurio,
venga usato l’antimonio. L’alchimista del XII secolo Artefio parla
di una speciale tintura contenente antimonio e mercurio sublimato
che avrebbe dovuto avere effetti spettacolari (The secret book of Artephius,
pag.6). Gli scienziati ammisero solo nel 1968 che si poteva realizzare
un composto chiamato ossido di mercurio e antimonio; il mercurio
rosso, invece, non è stato ancora
accettato. La domanda che ci poniamo è quante sostanze considerate
impossibili si possano invece realizzare grazie alla chimica e alla tecnologia
moderna, e avendo a disposizione molto tempo. Forse, oltre alla pazienza,
gli esperimenti degli antichi alchimisti possono insegnarci molto".
Esperimento del vortice di mercurio
1)
Costruire un "condensatore beaker" usando la base del beaker come dielettrico
tra le due lamine di rame
2)
Riempire il "condensatore beaker" per il 5% con mercurio
3)
Mescolare il mercurio con una bacchetta di legno per dare inizio al movimento
del vortice
4)
Caricare il "condensatore beaker" con una sorgente elettrica a corrente
continua. Il mercurio dovrebbe continuare
a ruotare e ad aumentare la velocità di rotazione quando la carica
viene applicata.
ATTENZIONE : QUESTO ESPERIMENTO POTREBBE ESSERE MOLTO PERICOLOSO!
Nota
: Questo esperimento è basato sulla Thomson
Tornado Theory di Peter Thomson
Brano tratto dal Samarangana Sutradhara in sanscrito:
"La struttura del Vimana deve essere costruita solida e durevole, come un grande uccello volante di materiale leggero. All'interno si deve mettere il motore a mercurio con sotto il suo apparato di riscaldamento in ferro. Per mezzo della potenza latente nel mercurio che mette in movimento il turbine di comando, un uomo seduto all'interno viaggia per una grande distanza nel cielo. I movimenti dei Vimana sono tali che esso può ascendere verticalmente, discendere verticalmente, muoversi inclinato avanti e indietro. Con l'aiuto delle macchine gli esseri umani possono volare nell'aria e gli esseri celesti possono discendere sulla terra."
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