Apprendiamo dal National Geographic News del 27 ottobre 2004 che un nuovo membro è stato inserito nella variegata famiglia del genere umano, portando lo scompiglio tra i paleoantropologi: si tratta infatti niente di meno che di un “Hobbit”. O almeno così lo hanno battezzato affettuosamente i ricercatori indonesiani e australiani che ne hanno rinvenuto l’esemplare in una caverna dell’isola di Flores, a est di Bali. Si tratta di una serie di scheletri senza precedenti, che hanno già ricevuto l’onore di una nuova denominazione specifica: Homo floresienses. Con 1 metro di statura (per 25 kg), e circa 0,4 litri di capacità cranica, possedevano, da adulti, le proporzioni di un bambino di tre anni. Lo sconcerto cresce se si pensa che questi esseri hanno un’età giovanissima, compresa tra 18.000 e 15.000 anni.
Figura
1. Confronto tra il cranio di Homo floresienses e uomo moderno
Peter
Brown, tra i più noti paleoantropologi australiani, la considera
una delle più spettacolari scoperte in mezzo secolo; l’omino
di Flores è destinato a sollevare una quantità di problemi
e di domande imbarazzanti poiché faticherà molto a trovare
un posto logico sull’albero genealogico ufficiale dell’evoluzione umana.
Innanzitutto,
questo reperto rappresenta la conferma definitiva che ominidi dalla
morfologia anche molto diversa dalla nostra hanno convissuto con Homo
sapiens praticamente fino all’altro ieri - in termini geologici - (in
realtà l’Homo erectus di Giava era già stato post-datato
a 30.000 anni, a metà degli anni ’90 {1}).
Questo dovrebbe finalmente segnare l’abbandono definitivo del vecchio
paradigma evoluzionista che prevedeva la successione/sostituzione graduale
degli ominidi nella direzione evolutiva dell’uomo anatomicamente moderno.
Al contrario, la nostra specie ha convissuto per decine di migliaia di
anni con gli uomini di Neanderthal in Europa e con varianti di H.
erectus nell’area australe.
Poi, fatto
decisivo, demolisce completamente i criteri “volumetrici” (già
lungamente criticati da molte parti) di distinzione tassonomica tra le
specie ominidi. Pur avendo un cervello che occupa, in termini assoluti,
un terzo del volume medio di H. sapiens (1250 cc) , gli antichi
abitanti dell’Isola di Flores denotano statura eretta (che si evince
da uno scheletro completo), hanno lasciato utensili, resti di fuoco e di
cacciagione, per cui entrano a pieno titolo nel genere Homo. Sostanzialmente
erano dei pigmei dalle caratteristiche estreme, ma con i tratti
cranio-facciali tipici dell’H. erectus: arcate sopraorbitali sporgenti,
cranio allungato e mento assente.
In terzo luogo
si pone il quesito della provenienza e dell’origine filogenetica
di questo gruppo (specie? sottospecie?). I ricercatori non possono far
altro che postulare l’arrivo su Flores di una popolazione di H. erectus
asiatico attorno a 800.000 anni fa, che si sarebbe sviluppato in
miniatura, plausibilmente a causa di una pressione evolutiva “insulare”
(si noti che sull’isola esisteva una specie di elefante nano, lo Stegodonte,
estinto 12.000 anni fa). Oppure si ipotizza che l’H. floresienses
fosse già “pigmeo” prima di giungere sull’Isola. Ma questo non è
cruciale, ciò che conta è che abbiamo un’ulteriore prova
della grande plasticità delle popolazioni umane del pleistocene
(1.700.000 - 12.000 anni fa), le cui caratteristiche fisiche suscitano,
allo stato attuale della ricerca, una certa diatriba tra gli specialisti.
Infatti è abituale considerare gli esemplari di quest’epoca, etichettati
sotto le diverse denominazioni (Homo erectus, neanderthalensis,
sapiens
“arcaico”) come specie separate. Alcuni paleoantropologi invece
le considerano adattamenti regionali di un’unica grande specie “politica”
diffusa su tre continenti, nella quale, si può ora presumere, andrebbe
ad inserirsi il pigmeo indonesiano. Semplificando il discorso, l’Homo
pleistocenico ha dato vita a morfologie estreme rispetto a quelle
dell’uomo anatomicamente moderno: il neanderthaliano era più
robusto e muscoloso degli Inuit attuali, l’Homo ergaster (Kenya,
1,7
milioni di anni) era più longilineo dei più alti
Turkana
odierni, e i “nani” di Flores erano più minuscoli del più
basso pigmeo che si conosca.
Non basta,
vi è un ulteriore problema che rende decisiva tutta la questione,
ed è proprio la posizione geografica dell’Isola di Flores
nell’arcipelago indonesiano.
Figura
2. L’isola di Flores, a circa 600 km a ovest di Giava, è separata
da Bali da due bracci di mare profondo
Questa si trova
isolata
da ogni altra terra circostante da uno stretto di acqua profonda, denominato
limite di Wallace, che separa la maggior parte della fauna asiatica
da quella australiana. Chi colonizzò Flores nel passato doveva essere
in grado di superare tale limite via mare, partendo da ovest (isola
di Bali) superando due tratti di mare di una ventina di chilometri
ciascuno, oppure da nord (Sulawesi) affrontando un viaggio ancora
più lungo.
Incredibile
a dirsi, data la frammentarietà dei fossili che documentano le tappe
evolutive dell’uomo, proprio questo sito era già diventato protagonista
di una scoperta inaspettata, che si tinse dei toni gialli della
cosiddetta “archeologia proibita”. Nel 1968, vennero rinvenuti
sull’Isola degli utensili di pietra nello stesso strato degli stegodonti,
di cui si conosceva l’età approssimativa di 750.000 anni.
Ma, dato che l’autore della scoperta, il missionario olandese Theodor
Verhoeven, non era un professionista del campo, la scoperta venne
ampiamente trascurata. Una presenza di ominidi produttori di utensili
era
da considerarsi del tutto fuori luogo in un’isola sperduta oltre la
barriera biologica di Wallace.
Figura
3. Utensili litici sull’isola di Flores datati a circa 800.000 anni
La datazione
era assolutamente improponibile per una presenza umana (che, si sa,
“deve” essere arrivata in Australasia non prima di 50.000 anni fa).
Ed altrettanto problematica sarebbe stata l’attribuzione ad H. erectus,
il quale, trenta anni fa, era ancora considerato un anello di congiunzione
proto-scimmiesco, in grado sì di produrre utensili e, forse,
comportamenti sociali rudimentali, ma ritenuto incapace di un’organizzazione
e di una tecnologia sufficiente per affrontare il mare aperto, pur
partendo dalla vicina Isola di Giava , in cui si trovava stanziato all’epoca.
Si è
dovuto arrivare agli anni ’90 perché due misurazioni indipendenti,
una paleomagnetica e una sulle ceneri vulcaniche, confermassero l’età
dei reperti attorno a 840.000 anni. La situazione è così
divenuta imbarazzante, con la comunità scientifica divisa tra
gli estimatori delle inattese capacità di navigazione di H. erectus
e chi invece tenta di minimizzare la scoperta.
In teoria
si può ipotizzare l’emersione di ponti di terraferma dovuti
dall’attività tettonica nell’area, in qualche momento del pleistocene,
anche se fino ad oggi si suppone che in nessuna epoca geologica “recente”
vi fosse un collegamento ininterrotto indo-australe: persino durante
la massima escursione marina dell’ultima era glaciale quel tratto dell’arcipelago
era coperto dal mare. Inoltre la fauna preistorica di Flores è
composta da specie animali capaci di nuotare o, al limite, di andare alla
deriva aggrappati a vegetazione galleggiante.
E’ stato
anche suggerito che gli oggetti litici in questione non fossero effettivamente
dei manufatti, insinuazione contro la quale Mike Morwood dell’Università
australiana del New England è stato assolutamente categorico.
Purtroppo quello di relegare potenziali utensili nella categoria
dei “prodotti naturali”, quando questi vengano rinvenuti dove non dovrebbero
stare, è un vizio secolare della paleoantropologia: con questa
spiegazione
di comodo, nella seconda metà dell’800, è passata sotto
silenzio una solida evidenza della presenza umana nel pliocene e
nel miocene europeo (vedasi Michael Cremo, Archeologia proibita,
1997).
Secondo i
dati a disposizione sia i pigmei umani che la fauna pleistocenica caratteristica
di Flores (oltre al suddetto stegodonte nano, la testuggine gigante e il
varano gigante di Komodo) si sono estinti in seguito ad un’imponente
eruzione vulcanica attorno a 12.000 anni fa. Anche se le evidenze
archeologiche note di uomini moderni sulla nostra isola partono solo dal
millennio successivo, è ora accertato che nell’area indo-australe
vi sia stata una convivenza di almeno 20.000 anni tra uomini anatomicamente
moderni e creature “nane”. Per cui l’ipotesi di relazioni culturali
e di possibili incroci tra le diverse razze ha fatto subito capolino tra
i ricercatori.
Il tema delle
ibridazioni tra il sapiens e i suoi predecessori pleistocenici è
tuttora ampiamente dibattuta e, nonostante i dati genetici tendano a escludere
ibridi tra le razze arcaiche e quelle moderne, vi è una vasta letteratura
di comparazioni ossee e craniometriche che documentano la persistenza di
caratteri ancestrali nelle popolazioni regionali dei diversi continenti
(in proposito si rimanda a “L’aborigeno australiano: un homo sapiens arcaico?”
del sottoscritto).
In quest’ottica,
l’H. floresienses diventa allora un ritrovamento coerente,
trovandosi proprio nel baricentro di un’area in cui sono insediati (o almeno
sopravvivevano fino al secolo scorso) diverse popolazioni pigmee di colore,
sparse su diverse isole dell’Oceano Indiano. Nel Golfo del Bengala,
i “negritos” delle Isole Andaman presentano caratteri
pigmoidi. Le zone montuose della penisola thailandese, malese e dell’Indonesia
erano popolate, fino agli anni ’20, da etnie pigmee, oggi quasi
completamente scomparse (i Semang della Malaysia, gli
Yali
dell’Indonesia).
Inoltre, fatto
dimenticato dall’antropologia, anche in Australia, nel Queensland
settentrionale, è stata ampiamente documentata la presenza di
un’etnia pigmea. Le caratteristiche dei “Barrineans”, studiate
da Norman B. Tindale e Joseph B. Birdsell negli anni ’30,
erano
note agli antropologi e al vasto pubblico fino agli anni ’60. Si trattava
di etnia di statura compresa tra 1,40 e 1,50 metri, con volti infantili,
somiglianti agli estinti nativi della Tasmania (la popolazione più
scura dell’Australia). Pare che la memoria di questa popolazione, così
come un’interessante teoria alternativa sull’origine delle popolazioni
aborigene australiane, sia scomparsa dalla letteratura a partire dagli
anni ’60, per motivi sostanzialmente politici. La teoria di
Birdsell del “triplice ibrido” (trihybrid theory) suggeriva
che i variegati tratti somatici delle numerose etnie aborigene (statura
e corporatura, colore della pelle, tipo e colore del pelame) fossero il
risultato di un rimescolamento di lungo periodo tra popolazione
di origine, rispettivamente, pigmea, Vedda (chiari di pelle, con
pelo folto caucasico, e tozzi) e negroide longilinea. Questa
tesi, per lo meno suggestiva, è stata completamente censurata
in favore dell’origine singola attraverso la migrazione africana
recente.
Il modello standard risultava infatti più funzionale
alle rivendicazioni (sacrosante) del movimento per i diritti politici degli
Aborigeni degli anni ’60, per il quale era opportuno unificare la lotta
delle diverse etnie sotto un’unica bandiera, identificare cioè
il diritto ancestrale alla terra sulla base della comune origine genetica
{2}.
Eppure
la scarsa popolarità dei pigmei isolani pare immotivata alla luce
dell’origine africana recente. Non sarebbe forse un’ottima prova
di una migrazione primitiva che partendo dal cuore tropicale-equatoriale
dell’Africa attraversò
migliaia di chilometri toccando le
coste e le isole dell’Indonesia fino alla Tasmania?
In realtà
le cose non sono così semplici. Secondo le teorie ortodosse il primo
uomo moderno (comparso tra 150.000 e 100.000 anni fa) dovrebbe
essere un “normotipo” africano capace di adattarsi molto rapidamente
ai diversi climi del mondo. Tanto rapidamente che la sua presenza è
oggi attestata in Siberia, oltre il circolo polare artico, già
40.000 anni fa {3}. La statura pigmea dovrebbe
essere quindi un adattamento evolutivo secondario, abbastanza eccezionale,
tipico di ambienti insulari e forestali (perché quindi la pelle
scura?). Trovare questi uomini in siti isolati e così distanti
fra di loro difficilmente può essere imputato ad una improbabile
riduzione corporea dei colonizzatori, intervenuta ripetutamente
ad ogni successiva migrazione.
Non è invece più logico
ipotizzare un’antica stirpe umana originariamente distribuita su un ampio
bacino tra Africa e Australasia? Non sarà casuale che le aree
di sopravvivenza dei pigmei siano zone marginali, distribuite a macchia
di leopardo (montuose, forestali o completamente isolate come nel caso
di Flores), come se queste etnie avessero già subito in passato
una diaspora e una decimazione, probabilmente ad opera delle popolazioni
che hanno colonizzato estensivamente il Pacifico?
Una prospettiva
di questo tipo però implica la permanenza di tali caratteri fisici
per molte generazioni, al di là di un estemporaneo “adattamento
ambientale”, tanto da avvicinarla pericolosamente ad un concetto tabù
della moderna antropologia, quello di “razza”. E’ risaputo che l’antropologia
molecolare ha minimizzato l’importanza delle differenze fisiche tra i tipi
umani, per il fatto che il genoma sostanzialmente non le registra.
Ma la fondamentale unità genetica della specie umana non è
assolutamente incompatibile con il concetto di varietà umane:
i
“tipi”, in ogni specie, una volta manifestati, possono rimanere stabili
per lunghi periodi, a meno di mescolamenti con altre razze interfeconde.
Proprio in
relazione al pregiudizio razziale, possiamo trovare un altro
dei motivi che hanno “cancellato” i pigmei dell’Oceania dalla memoria storica:
si tratta di qualcosa che ha a che fare con la loro faccia. A guardare
alcune foto d’epoca si notano frequentemente arcate sopraorbitali piuttosto
sporgenti, indice di “primitività” quando si tratta di fossili,
considerate una semplice ipertrofia ossea, quando invece si ha a che fare
con uomini viventi. Purtroppo è noto il modo in cui questi caratteri
sono stati fraintesi in senso razzista nel secolo scorso.
Figura
4. A destra Semang della Malesia. A sinistra tribù pigmea nei
pressi di Cairns, (1890)
Una vera rivoluzione culturale è in corso, nel giro di pochi anni sta cambiando radicalmente la stima dell’intelligenza del nostro presunto antenato diretto H. erectus, perfettamente bipede alla soglia dei due milioni di anni fa. Fino a ieri si sono sempre sottostimate le capacità tecniche e intellettuali del ramo asiatico di questa specie, rispetto a quello africano, a causa della sua robustezza e per la povertà di industria litica “evoluta” che ha lasciato. Adesso improvvisamente si presenta l’immagine di esseri simili a degli hobbit che costruiscono imbarcazioni per colonizzare le isole dell’oceano.
L’Indonesia rappresenta il nodo cruciale per il modello di popolamento dell’Oceania e qui si trovano una serie di ritrovamenti contraddittori che faticano sempre di più ad adattarsi alle idee classiche sulla migrazione degli esseri umani e ai preconcetti secondo cui il “gracile” e “moderno” deriva dal “robusto” e “primitivo”. I fossili conosciuti documentano la presenza di H. erectus in Asia a soli 300.000 anni dalla sua prima comparsa africana, la navigazione indonesiana di 800.000 anni fa, eppure non vi sono sue tracce nel continente australiano. Qui però stranamente sono stati trovati degli esseri umani recenti (10.000 anni) molto più robusti del normale {4}. E’ plausibile pensare che molti buchi nella serie fossile umana non siano dovuti solo all’aleatorietà della fossilizzazione, ma anche ad un processo di selezione semi-intenzionale dei reperti che, a quanto pare è ancora in corso.
Man mano che
ci si rende conto che l’uomo del pleistocene si comportava in maniera
troppo umana per essere un gradino inferiore sulla scala evolutiva,
potrebbe avvalorarsi la teoria della specie unica, secondo la quale
i fossili degli ultimi 2 milioni di anni non sarebbero linee evolutive
ramificate nella direzione di Homo sapiens, ma bensì adattamenti
regionali di un’unica grande specie politipica, l’Uomo, nella quale
includere i poli opposti, dal neandertaliano dei climi freddi al nuovo
pigmeo dei tropici. Probabilmente i parametri di
classificazione osteologici finora considerati validi per distinguere specie
diverse dovrebbero essere riesaminati alla luce dell’estrema variabilità
di questi antenati. Come si comporterebbe, si chiede la paleoantropologa
Susan Anton, «un ricercatore che, tra un milione di anni,
guardasse i pochi resti fossili di un pigmeo africano e di un giocatore
dell’NBA»? {5}.
Per concludere,
va notato che questo episodio aggiunge un altro elemento ai già
molti indizi, di carattere geologico e zoologico, che indicano nel periodo
attorno al 10.000 a.C. la fine improvvisa di un equilibrio ecologico
di lungo termine e probabilmente la fine della convivenza dell’uomo
moderno con i membri più peculiari, forse specializzati, della famiglia.
Alla luce di ciò si può suggerire che la denominazione convenzionale
di “uomo anatomicamente moderno”, comprenda in realtà
le razze fisicamente meno specializzate, che sono arrivate fino ad
oggi.
Scampati alla
grande crisi climatica della fine del pleistocene, sembra che i pigmei
rimasti non sopravviveranno all’epoca moderna e alle politiche dei
governi entro i cui confini sono capitati. Con la distruzione progressiva
del loro ambiente nativo, l’omogeneizzazione culturale o il
mescolamento con le popolazioni confinanti, in Africa come in Indonesia,
questa antica Razza è destinata a lasciare la sua eredità
solo sui libri di antropologia.
Note
1.
C. Swisher III et al., Latest Homo erectus of
Java: Potential Contemporaneity with Homo sapiens in Southeast Asia, Science,
274 (1996). INDIETRO
2.
In Nord America, argomentazioni simili hanno portato
a sottostimare la diversità etnologica delle popolazioni native:
purtroppo per una tragica ironia della storia, le rivendicazioni dei diritti
dei Pellerossa americani hanno causato ostacoli allo studio del popolamento
delle Americhe (come nel caso della diatriba sull’uomo di Kennewick). INDIETRO
3.
P.Pavolov, J.I.Svendsen, S.Indrelid, Human presence
in the European Arctic nearly 40,000 years ago, Nature, 2001. INDIETRO
4.
Thorne, A. G., Macumber, P. G., Discoveries of
Late Pleistocene man at Kow Swamp. Nature 238, 1972. INDIETRO
5.
Susan Anton, National Geographic News, 25/3/2002.
INDIETRO
Fonti
Hillary Mayell,
"Hobbit" Discovered: Tiny Human Ancestor Found in Asia, National Geographic
News 27/10/2004.
Ancient mariners
- Early humans were much smarter than we suspected, New Scientist, 14/3/1998
Ann Gibbons,
Ancient Island Tools Suggest Homo erectus Was a Seafarer, Science 279,1998.
Keith Windschuttle,
Tim Gillin, The extinction of the Australian pygmies, Quadrant, June 2002.
rivoluzione archeologica, Egitto, geode di Coso, piramidi, archeologia proibita, paleoastronautica, archeoastronomia, misteri dell'Egitto, Cheope, enigmi, costruzione delle piramidi, labirinto, gruppo MMM, Atlantide, Sfinge,archeological revolution, Egypt, geode of Coso, pyramids, forbidden archeology, paleoastronautic, archeoastronomy, mysteries of Egypt, Cheops, enigmas, construction of the pyramids, labyrinth, MMM Group, Atlantis, Sphinx,Michael Cremo, Robert Bauval, Christopher Dunn, Robert Schoch, Georges Goyon, Kurt Mendelssohn, Flinders Petrie, Colin Wilson, Graham Hancock, Thomas Dobecki, Gaston Maspero, Auguste Mariette, Howard Vyse,Zahi Hawass, David Bowen, Dos Santos, Arthur Posnansky, Peter Kolosimo, Barry Fell, Kimura, Rudolf Gantenbrink, Charles Hapgood, Thor Heyerdahl, Cheryl Haldane, David Davenport, Maurice Cotterel, Ahmed Al-Maqrizi,Martin Fleischmann, Newham, Zecharia Sitchin, Han Ping Chen, Mike Xu, John West,Cheope, Cheops, Chefren, Micerino, Menkaura,menhir, Machu Picchu, Mohenjo Daro, Sacsahuaman, Osireion,Abido, piramide bianca, white pyramid, calendario Maya, Mayan calendar, vimana, Mahabarata, Ramayana, Pantiacolla, monoliti, monoliths, Oak island, Oak island treasure, tesoro di Oak island