L’ABORIGENO AUSTRALIANO:
UN HOMO SAPIENS ARCAICO?
di Mauro Quagliati


La controversia scientifica sull’origine dell’uomo moderno vede in campo due principali scuole di pensiero: la teoria dell’origine africana recente, largamente condivisa dalla maggioranza degli evoluzionisti, e il modello multiregionale, sostenuto da una minoranza di paleoantropologi (M.Wolpoff, A. Thorne e altri).
Figura 1. Cranio di aborigeno australiano della tribù Pintubi, XIX secolo

Secondo il modello Out-of-Africa le popolazioni umane odierne sono discendenti dei primi Homo sapiens emigrati dall’Africa negli ultimi 100.000 anni che, colonizzando gli altri continenti, si sostituirono “molto velocemente” agli antenati del genere Homo che vi abitavano. Questa tesi accreditata nella seconda metà del ‘900, porta, tra le prove a suo supporto, gli studi sulla genetica delle popolazioni umane (in base all’analisi del DNA mitocondriale, ad esempio, si nega ogni parentela “filogenetica” tra uomo di Neanderthal e sapiens moderno).

La teoria dell’origine multiregionale, che si rifà agli studi di Franz Weidenreich degli anni ’40, si basa principalmente sullo studio comparato dell’anatomia e sostiene al contrario che uomini moderni ed arcaici fossero interfecondi e, mescolandosi fra loro, lasciarono in eredità ai discendenti relitti di morfologie regionali (nota 1).  Quindi tra gli individui dei vari continenti si troverebbero tracce dei caratteri ossei dei loro lontani antenati: l’Uomo di Pechino, l’Uomo di Giava, l’Uomo di Neanderthal europeo (prove di una convivenza di lungo periodo e dell’incrocio di diversi tipi umani sono stati rinvenute in Croazia e Palestina dove, 100.000 anni fa, vivevano individui con crani ibridi neandertaliani-moderni).

In questa diatriba si collocano i caratteri cranio-facciali unici degli Aborigeni australiani. Alcune etnie presentano una calotta cranica di spessore notevole, con fronte ribassata e inclinata, forte prognatismo, arcate sopraorbitali sporgenti, a volte mento sfuggente. In paleoantropologia, questi sono i caratteri che, variando il grado di ipertrofia ossea, distinguono le varie specie di Homo pleistocenico (dal più gracile al più robusto sono: H.sapiens arcaico , H. erectus, H.neanderthalensis)
 

  
Figura 2. Due aborigeni australiani e un melanesiano dagli spiccati caratteri "arcaici"

Tra gli antropologi "classici" che un secolo fa proposero diversi schemi di classificazione fisica delle cosiddette razze umane, era convinzione comune che la razza australoide fosse un vero e proprio relitto del passato preistorico dell’uomo. Al contrario nel quadro della moderna teoria africanista è abitudine minimizzare la peculiarità degli aborigeni (purtroppo usate in passato con intenti razzisti), tanto che bisogna andare a ripescare delle foto d’epoca per trovare ritratti individui che sembrano proprio il prototipo ideale di “anello di congiunzione” tanto caro al dettame evoluzionista. Spesso queste somiglianze vengono considerate come adattamenti esteriori secondari, all’interno della specie Homo sapiens.
Ma cosa succede se usiamo lo stesso metro di giudizio anche per i fossili? Il cosiddetto Homo sapiens arcaico che visse nel medio pleistocene in Europa, oggi classificato come una sottospecie di passaggio tra noi e l’erectus, diventerebbe una semplice “varietà” della nostra stessa specie.

Figura 3. Sopra, capigliature bionde di aborigeni. Sotto, anche le donne mostrano tratti facciali estremi.

Diversi paleoantropologi (nota 2) oggi ritengono che “sapiens arcaico” sia una denominazione generica priva di fondamento biologico, contenitore di comodo che nasconde vecchi pregiudizi sulla morfologia dei progenitori, secondo cui gli antenati devono essere più robusti dei discendenti. Capita invece che il più antico Homo europeo, rinvenuto in Spagna, ad Atapuerca, abbia 800.000 anni e possieda un’anatomia molto più moderna del Neanderthal, posteriore di mezzo milione di anni.
Inoltre la sopravvivenza di caratteri “primitivi” tra gli Australiani e i Melanesiani è ancora più problematica per la teoria “Out of Africa”, dato che questi, ritenuti i primi colonizzatori africani arrivati dalla rotta migratoria delle isole indonesiane, anche se scuri di pelle, non sono negrodi. Invece tradizionalmente i volti degli australoidi furono accomunati a quelli europei. Agli antropologi dell’inizio del ‘900, che conoscevano i reperti preistorici del tardo pleistocene europeo, gli Aborigeni apparvero come gli “arcaici sopravvissuti dello stesso da ceppo da cui si evolsero i Caucasici” (nota 3).


Figura 4. A sinistra, Vedda dello Sri Lanka, a destra, gruppo etnico simile dallo Yemen

Gli australiani erano inseriti nello stesso gruppo razziale con i Vedda (tribù semi-nomadi delle foreste dello Sri Lanka) e gli aborigeni del Giappone, gli Ainu.
Questi gruppi infatti, nonostante le diverse colorazioni della pelle, mostrano il tipico follicolo pilifero degli europei, e sviluppano un pelo corporeo, folto, ondulato e dai colori vari, dallo scuro, al biondo al rosso. Anche la forma del naso è tipica, con cavità nasali larghe, ma setto nasale sporgente (non schiacciato come quello africano). Gli omologhi europei di questo ceppo, secondo l’antropologo C.H. Stratz dovevano essere i Baschi e i Celti. Si noti che tutte queste popolazioni si trovano ai margini estremi del continente eurasiatico, come se fossero i sopravvissuti di una grande diaspora causata, plausibilmente, dall’espansione delle popolazioni indoeuropee verso ovest e mongoliche verso est, avvenuta dopo la grande crisi climatica della fine dell’ultima era glaciale. Il conseguente innalzamento dei mari ha isolato gran parte dell’Oceania dove, non a caso, sono state trovate le prove della sopravvivenza tarda di uomini molto robusti (mentre in Europa l’antica razza si è persa più velocemente).

Figura 5. Ainu delle Isole Kurili in un’antica stampa. La somiglianza con l’aborigeno australiano è notevole

I resti dell’Uomo di Giava (H.erectus di Ngandong) sono stati recentemente post-datati a 30.000 anni (nota 4), mentre nell’Australia sud-orientale, esemplari di H. sapiens “robusti” sono recentissimi (Kow Swamp, 10.000 anni) e posteriori ad altri australiani “gracili” (Lake Mungo, 60-30 mila anni).

Non è necessario postulare che l’uomo “moderno” derivi da quello “arcaico”. Queste sono infatti denominazioni suggestive del vecchio paradigma evoluzionista delle specie separate e successive. In generale, i fossili del pleistocene sono interpretabili come varietà di un’unica grande specie politipica (come suggerisce Wolpoff) e cosmopolita che vive sulla Terra da almeno 1,5 milioni di anni. Gli adattamenti climatici di lungo periodo hanno dato luogo a diverse varietà regionali (o razze) “gracili” e “robuste”. In fondo la differenza tra l’Homo erectus africano e il Neanderthal è qualitativamente la stessa che intercorre tra i Keniani e gli Inuit di oggi, solo amplificata nelle proporzioni: ai tropici i corpi sono alti e slanciati, con arti longilinei adatti alla dispersione del calore, nell’Artico sono tozzi, con un tronco ben piantato, ossa corte e robuste, per conservare al massimo la temperatura corporea.
Figura 6. Azzo Bassou, individuo "neanderthaliano" trovato in Marocco negli anni ’30

Il tardo pleistocene si è concluso con il cambiamento climatico globale di 12.000 anni fa, in seguito al quale si sono avuti sia delle massicce migrazioni che ibridazioni tra varie razze, con estinzione delle varietà umane estreme (specializzate). La specie umana rimane comunque uno dei mammiferi terrestri con le più ampie variazioni fisiche, di statura, colore e conformazione degli adulti.



NOTE

1. Alan G. Thorne, Milford H. Wolpoff, Un’evoluzione multiregionale, Le Scienze, 1992. John Hawks , Science
2. Niles Eldredge, Ian Tattersal, I miti dell’evoluzione, 1984.
3. C. S. Coon, L’origine delle razze, 1962.
4. C. Swisher III et al., Latest Homo erectus of Java: Potential Contemporaneity with Homo sapiens in Southeast Asia, Science, 274 (1996).




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